La salute è un gioco di squadra

Patient engagement

Un vero ingaggio del paziente si ottiene prendendo in carico la patologia e la “persona con”. Fondamentali ascolto, dialogo e alfabetizzazione sulle tecnologie abilitanti. L’opinione di Antonella Celano, presidente Apmarr.

Che cosa è per lei il patient engagement?

Per noi in sanità, quello che noi definiamo come patient engagement è un coinvolgimento attivo e partecipativo del cittadino, della persona nel percorso di salute. Quindi noi immaginiamo la salute della persona una sorta di gioco di squadra, in cui chi vive la patologia non è un oggetto ma è un soggetto, quindi un attore consapevole, che compie delle scelte informate. Quindi insieme al medico sceglie quale sarà il percorso di cura.

Quali sono le criticità del patient engagement delle persone con malattie reumatologiche? Cosa funziona e cosa no? Come si potrebbe superare eventualmente il problema?

Cosa funziona e cosa no? Questa è una domanda abbastanza complessa, nel senso che bisognerebbe prima di tutto lavorare sulla cultura.

A me capitava che entravi in uno studio medico, porgevo la mano al medico e vedevo che istintivamente ritraeva la mano, perché non c’è l’abitudine di avere una sorta di rapporto tra pari. Questo allontana e non permette alle persone di avere quel ruolo di engagement di cui noi oggi stiamo parlando. Perché se tu non mi consideri una persona e mi consideri solo come la malattia, ovviamente non mi stringerai la mano e non mi permetterai di produrre questo ingaggio, che invece noi oggi ci auguriamo.

Cosa può favorire, secondo lei, la partecipazione del paziente?

Voglio fare degli esempi proprio per chiarire. Se non ci si rivolge alla persona ma ci si rivolge solo alla patologia, è come se ci fosse in una disconnessione tra la persona e la patologia stessa.

Eppure io sono un tutt’uno. Cioè io sono una persona che vive con una patologia, ma non sono la mia patologia. E non è separabile questo dal resto del mio corpo, la mia patologia viaggia con il mio corpo. Quindi per trovare questo ingaggio noi dobbiamo parlare solo di persona e non di paziente. Solo così si potrà avere una partecipazione che non sia parziale…un ingaggio, un engagement parziale potrebbe portare ad un fallimento del percorso di cura, fallimento di un rapporto con il medico. Fallimento che poi porterebbe, ovviamente, ad outcome non voluti.

L’associazione Apmarr ha già attivato qualche iniziativa di patient engagement?

Sì, la nostra associazione ha un patrimonio genetico in questo senso, rispetto al patient engagement. Parlavamo di engagement, di paziente esperto, di coinvolgimento quando queste questioni non erano ancora di moda, ma per noi erano già elemento di crescita. Abbiamo tenuto un corso, già nel 2008, che parlava di patient empowerment, patient engagement, e l’abbiamo intitolato il “corso per il paziente esperto”. L’abbiamo inteso come un corso destinato alle persone che vivono con una patologia cronica, che però sono capaci di tenere la propria patologia. Abbiamo fatto in modo che le persone acquisissero delle capacità di tenere sotto controllo la patologia, comprendendone i sintomi, riuscendo a gestirla e facendo ricorso quindi al medico solo in casi, effettivamente, solo per quelle che erano visite di follow up o in casi estremi di urgenza.

Siamo sempre stati convinti che il patient engagement sia fondamentale perché il paziente esperto è il miglior alleato di sé stesso. Quindi è un partner ideale per il sistema di cura. E ovviamente crea anche risparmio perché l’evitare di fare continuo ricorso al medico, e quindi di intasare ambulatori, è anche un modo per migliorare il sistema sanitario.

Quali potrebbero essere, secondo lei, le prime azioni da compiere per favorire il patient engagment della persona con malattia reumatologica?

Intanto bisogna ascoltare, un po’ come se dovessimo aprire delle porte, le porte del quotidiano di una persona che vive con una patologia cronica. E dobbiamo imparare ad ascoltare e a dialogare. Intendo, comprendere quello che la persona con patologia cronica trasmette. Non è sempre facile, perché la persona vive con la patologia 24 ore su 24, 365 giorni all’anno, e molto spesso all’esterno non compare ciò che la persona vive. Quello che è la routine, il quotidiano, costituisce proprio l’identità del soggetto e anche le reazioni che la persona con patologia ha nei confronti del quotidiano. Noi dovremmo avere la possibilità di dare delle risposte concrete a questi bisogni quotidiani, proprio per sostenere bisogni che sono molto spesso inascoltati e a volte anche inespressi.

Quanto le nuove tecnologie, attualmente, possono favorire il patient engagement del paziente? E quali possono essere queste tecnologie?

Beh, diciamo che le nuove tecnologie possono favorire sicuramente il patient engagement, ma è importante prima di tutto partire da un’alfabetizzazione. Oggi noi ne parliamo anche in termini di telemedicina, teleconsulto, abbiamo tutta una serie di app che permettono di gestire la terapia quotidiana, che permettono di controllare quelli che sono i parametri vitali ecc. Però non tutti sono consapevoli di questo e non tutti sono pronti a adoperare queste tecnologie.

È importante un’alfabetizzazione non solo della persona con patologia, ma anche di quelle che offrono questo tipo di servizi. Posso fare un esempio legato proprio al periodo della pandemia. Riguardo alla ricetta dematerializzata, c’è chi ne chiede ancora la stampa. Questo è un ossimoro, ma accade. Gli strumenti ci sono, ce ne sono tanti, ma bisogna prima partire dall’abc, altrimenti finiscono solo all’appannaggio solo di una determinata categoria di persone e non saranno mai adoperati dalla moltitudine.